WILT CHAMBERLAIN – MISTER 100
Paradossi.
La storia dello sport né è piena, anche quella della pallacanestro.
Talvolta si tratta di fatti e vicende personali, prestazioni e coincidenze, che stravolgono i pronostici, le regole, sfuggono alla logica, cambiano le sicurezze e regalano sorprese, pur restando episodici, eccezioni quasi inspiegabili.
Altre volte, invece, trasformano definitivamente tutto. Poi divengono essi stessi riferimento, paradigma, dimostrazione e testimonianza della validità delle regole non scritte.
E forse, il più grande paradosso, di certo il primo nell’ultracentenaria epopea della palla a spicchi, è proprio lui, il protagonista di Memories di oggi, colui che ha segnato un confine netto tra il prima e il dopo, una sorta di alieno piombato sul pianeta basket e capace di dominarlo da ogni punto di vista, ma che, come negli altrettanto paradossali film di fantascienza della sua epoca, alla fine deve piegarsi alla “normalità” degli uomini.
Wilt Chamberlain.
“Prima di lui, i giocatori di basket erano uomini di dimensioni normali, Chamberlain ha cambiato tutto” ha detto Hal Bock, giornalista di ESPN, volendo sintetizzare l’impatto di Wilt nella pallacanestro. Ed è vero, ma è perfino riduttivo. E soprattutto, non sottolinea la cosa più importante.
Perché è guardando oltre chi e come fosse Chamberlain, dentro al rettangolo di gioco, contestualizzandolo, che si trova il vero paradosso, appunto. Divenuto regola e replicato dopo di lui.
Il basket è uno sport di squadra, ancor più di altri forse, per la sua dinamica in cui tutti i giocatori sono costantemente dentro all’azione, in attacco e difesa, anche per la necessaria interazione determinata dagli spazi e i tempi di gioco ristretti. E allora, quando in uno sport del genere, oltretutto particolarmente tecnico, arriva un crack assoluto da ogni punto di vista, diverso e nettamente superiore al contesto in cui sbarca, come altrove ha un effetto dirompente, il suo gioco e le sue statistiche sono fuori scala, impressionano e nel breve tutti vengono abbagliati. Poi, nel lungo periodo, ed è qui il paradosso, si capisce e si apprezza come quel fenomeno fuori categoria debba comunque calarsi nelle dinamiche di quello sport fantastico, appunto di squadra, se vuole aggiungere i titoli più importanti, a quelli inarrivabili ma fini a se stessi che facilmente può conquistare individualmente.
E’ successo a MJ, di gran lunga il migliore di sempre già negli anni impressionanti a tabellino, ma senza vittorie Bulls, prima di diventare condottiero della Chicago campione NBA per 6 volte, è successo a Kareem, è successo a tutti.
E a Chamberlain ancora di più, e così tardivamente, che nella storia della pallacanestro, lui è ricordato prevalentemente per i suoi record imbattibili, molto più raramente per i due “soli” anelli NBA vinti. Non a caso, oggi, la rubrica a lui dedicata intende certo riepilogare una carriera e un personaggio incredibili, ma nel titolo e nel filmato riepilogativo della storia, tutto ruota su un tabellino personale, curioso e irripetibile.
Wilton Norman Chamberlain nasce nel ’36, a Filadelfia, e fin da giovanissimo il suo destino è chiaro: ha un fisico e un’innata coordinazione che lo pone nettamente al di sopra della media del periodo.
Non a caso, ancora adolescente, eccelle in qualsiasi disciplina, basket a parte, e ottiene ottimi risultati anche nel salto in alto, nel lancio del peso, nei 400 metri piani. E’ enorme, lunghissimo, con leve chilometriche e un controllo totale del movimento, in un contesto di normodotati. Alla High School, nei Panthers, cambia il mondo del basket giovanile: è talmente preponderante dal punto di vista fisico e per abilità che senza sforzi resta stabilmente ben sopra i 30 di media, arrivando a record per singolo incontro oltre i 50, i 70, i 90, numeri inauditi, mai registrati, una superiorità che non ha molti riscontri anche in altre discipline. La sua squadra vince i titoli cittadini, a Filadelfia e dintorni, quasi inevitabilmente, ma è chiaro che quello non è un team, è un gruppo di giocatori introno a un unico totem onnipotente.
Tutti i college americani, a quel punto, fanno la corsa all’extraterrestre Wilt. Lui scarta New York, scarta UCLA, scarta le università del Sud ancora estremamente razzista, e si accasa in Kansas, con i Jayhawks. All’epoca, per regolamento, i ragazzi del primo anno non possono essere schierati in campionato, ma come freshman Chamberlain è già onnipotente e superiore a chiunque. Nella prima amichevole tra le matricole non schierabili e la squadra ufficiale esordisce con 42 punti, 29 rimbalzi e 4 stoppate, tanto per dare un’idea. E quando finalmente può mettere piede in campo con i Jayhawks, alla prima in NCAA ne segna 52, catturando 31 rimbalzi. Quasi imbarazzante.
E’ tanta la sua superiorità che, anche in un mondo di certo non globalizzato e in cui le informazioni non circolano come oggi, tutti sanno in fretta che a Kansas c’è un marziano lunghissimo e individualmente inarrestabile. E tutti prendono provvedimenti, innescando per la prima volta quel paradosso di cui si parlava: il più forte per distacco, dominatore in ogni angolo del campo… che alla fine non riesce a vincere… .
Succede al primo anno, quando Oklahoma resta aggrappata alla gara e batte Kansas facendo melina, senza mai tirare, negli ultimi 3 minuti e mezzo di gara per conservare l’esiguo vantaggio incamerato, grazie all’assenza della regola dei 24 secondi. Succede il secondo anno, quando i Jayhawks centrano la finale, ma North Carolina triplica sistematicamente su Wilt e raggiunta la parità replica la tattica di Oklahoma, vincendo dopo 3 supplementari. Succede ancora, quando ormai per tutti gli avversari esiste un’unica via: difendere solo su di lui, tenere palla, e appena messo il naso davanti congelare il gioco.
Il risultato è che da un lato c’è il giocatore nettamente più forte, ormai un divo delle riviste e dei media, con proposte cinematografiche che testimoniano la sua straordinarietà, con statistiche personali impressionanti, nonostante le difese adeguate su di lui e partite a punteggio basso, con minuti interi passati senza un tiro a canestro (30 punti e oltre 18 rimbalzi di media, nella sua carriera college), ma nessun titolo in bacheca.
La frustrazione del paradosso comincia a farsi sentire.
Chamberlain abbandona Kansas, col desiderio di rifarsi subito tra i PRO e dimostrare ciò che tutti già sanno, che è il migliore. La realtà è di nuovo brutale, non gli fa sconti e lo tratta più da fenomeno da baraccone, che da giocatore. La NBA infatti non accetta, e non fa deroghe, atleti che non abbiano concluso gli studi universitari o abbiano analoga età anagrafica.
Wilt deve quindi aspettare, e lo fa come sempre da fenomeno: decide di aggregarsi agli Harlem Globetrotters, la squadra spettacolo che gira il mondo più per divertire che per fare sport vero, e in cui, di norma, si conclude una carriera, non la si comincia. Ma tant’è, Wilt ci passa un anno, guadagna un mucchio di soldi, più del doppio dei migliori giocatori NBA, ed entra nella storia quando nel 1959 i Globetrotters si esibiscono a Mosca, oltre cortina, davanti al premier sovietico Chruscev.
Il rischio di divenire il circense più bravo del mondo con la palla da basket in mano è concreto, ma appena raggiunge l’età giusta, la NBA gli riapre la porta. Debutta con la squadra di casa, i Philadelphia Warriors, all’epoca. E comincia da dove aveva finito: 43 punti e 28 rimbalzi all’esordio contro i rivali storici dei Knicks. Ma la storia del college si ripete: Wilt è un marziano, inarrivabile, colleziona record su record, come ad esempio essere sia rookie dell’anno, ovviamente, sia MVP della lega al primo anno, e altri 8 titoli individuali assoluti. Ma all’epoca la NBA è dominio della dinastia Celtics, i Boston della stella Russel, che non mollano nulla per strada. E quando, su quella strada, incrociano Chamberlain, si adeguano come una qualsiasi squadra college. Marcature triple, aiuti, fallo sistematico, che sfrutta il tallone d’Achille di Wilt, la media dalla lunetta. E infatti vincono.
Il secondo anno, stessa musica: Chamberlain passa da 37.6 e 27 rimbalzi di media da rookie, a 38.4 e 27.7, stabilisce il record di rimbalzi in singola gara, con 55, è in testa ad ogni classifica individuale, compresa quella sulle percentuali dal campo. Ma l’anello resta lontano.
E il terzo anno NBA è quello che certifica il paradosso:
è il memorabile 1962 e Wilt chiude con una media disumana di 50.4 punti a partita, stabilisce il primato, ineguagliato ad oggi, di 100 punti in una gara, su cui torneremo, supera la soglia dei 4.000 punti stagionali, altro record assoluto (il secondo nella storia è Michael Jordan, che ha superato i 3.000…), e scrive a referto un altro dato irripetibile:3.882 minuti giocati in stagione, sui 3.890 totali, una media di 48.53 a partita, stando sempre in campo anche negli over-time, a testimonianza di quanto lui sia fondamentale e anche di come sappia gestire energie e falli, non commettendo mail il sesto e ultimo.
Ma al solito, in una finale di Conference combattutissima, i Warriors si arrendono ai Celtics, in gara 7, e l’anello resta una chimera.
Comincia a serpeggiare il malumore, la piazza e la lega sono incantate dal dominio di Wilt, ma una tale sproporzione tecnica e fisica senza titoli inizia a gettare qualche ombra. A questo si aggiunge lo spostamento della franchigia, dalla parte opposta della nazione, a San Francisco. Tra i reduci che accettano il cambiamento e continuano in gialloblu, c’è anche Wilt, che mantiene statistiche mostruose, ma con identici risultati finali: il primo anno la squadra nemmeno centra i play-off, al secondo arriva in finale, contro i Celtics, e il risultato è quello di sempre, anello a Boston.
Poi arrivano i problemi finanziari, gli Warriors vanno in crisi, e Wilt ritorna nella sua Philadelphia, stavolta sponda Sixers. La squadra deve riadattarsi completamente, con l’arrivo del fenomeno, le tensioni con i compagni e il coach non mancano, ma lui è il numero 1, tocca adeguarsi. E sul campo le cose funzionano, Chamberlain è un grande accentratore, certo, ma porta punti e vittorie. Tanto che la neonata franchigia arriva in finale di Conference. I rivali? Manco a dirlo, i Boston Celtics. La sfida è epica, Wilt e Russel non si risparmiano, l’esito è in bilico e si arriva a gara 7. Wilt ha numeri personali migliori e gioca alla grande, ma il finale è punto a punto, i Celtics sanno già che la soluzione è fare fallo e contare sul punto debole del centro avversario. Lo sa pure il coach dei Sixers, che disegna gli ultimi schemi tenendo fuori dalle scelte per l’ultimo tiro proprio lui, il più grande. E alla fine, per la quinta volta in 7 anni, sono i biancoverdi di Boston ad andare avanti.
Stessa cosa l’anno dopo. Wilt fa quello che vuole, sul campo, ha medie di oltre 33 punti e 24 rimbalzi a partita, rivince il titolo MVP della lega, ma di nuovo i Sixers devono arrendersi alla dinastia Celtics. A questo si aggiungono dissapori sempre più evidenti. Perché Chamberlain fa quello che vuole anche fuori dal campo, godendo e anche approfittando del suo status di star assoluta. Vive a New York, per assecondare nei locali notturni della Grande Mela la propria passione per la vita mondana, cosa che impone a tutti i 76ers ritmi e allenamenti solo pomeridiani, in attesa che Wilt li raggiunga a Philadelphia, dove talvolta manco si presenta, o arriva tardi, svogliato e giusto per fare presenza. Vero è che poi, in partita, il suo rendimento resta straordinario e le sue capacità di recupero fisico dopo nottate di bagordi diventano leggendarie, ma sono in parecchi a chiedersi se in fondo valga la pena condizionare, da ogni punto di vista, economico e comportamentale, un’intera franchigia, per un giocatore che è certamente il migliore al mondo e non di poco, ma di fatto non porta titoli e viene sempre più vissuto come corpo estraneo, gioiello preziosissimo quanto fine a se stesso.
Tutto questo, porta a una svolta.
E alla certificazione del paradosso.
Nell’estate ’66 sbarca a Philadelphia coach Hannum, già allenatore di Chamberlain a San Francisco. E’ un tipo tosto, a cui non mancano carattere, lungimiranza e il coraggio di scelte impopolari. E’ convinto che Wilt, re delle statistiche e idolo delle folle, se continua ad essere re delle statistiche e idolo delle folle sarà il più grande perdente di sempre e con lui la franchigia.
A inizio stagione reimposta su queste basi e con regole totalmente diverse la squadra, per trasformarla, appunto, in una squadra.
Con Chamberlain lo scontro è inevitabile. Anche lui ha un carattere forte, ulteriormente consolidato dalla sua posizione di privilegio, ma Hannum è irremovibile e ha ben chiaro che la leadership dello spogliatoio spetta al coach, non a un giocatore, per quanto fenomenale.
Il cambiamento, che in realtà è un sano ritorno alle dinamiche normali dello sport di squadra, è epocale e produce una rivoluzione.
Chamberlain, che comunque padroneggia ogni fondamentale e quindi può anche ridisegnare il proprio ruolo, mantiene altissime medie rimbalzo, aumenta esponenzialmente la propria media assist, abbassa il numero dei suoi tiri e segna il peggiore dato della sua carriera fino a quel punto come media punti, “solo” 24.2.
Si mette al servizio della squadra, insomma, anche fuori dal campo, facendo gruppo, invitando anche spesso i compagni a cena.
Il risultato è straordinario: Wilt vince ancora il titolo di MVP, a dimostrazione del fatto che si può essere numeri uno anche e soprattutto giocando con e per gli altri, ma soprattutto Philadelphia si prende la rivincita su Boston, che proprio contro i nuovi Sixers del nuovo Chamberlain interrompono una serie ineguagliata di 8 titoli consecutivi, e va alle Finals contro i grandi ex, gli Warriors, anch’essi battuti.
E’ l’anello!
Il primo titolo per la franchigia e soprattutto per Chamberlain, che nei play-off abbassa ancora la propria media punti a 17.7, ma finalmente conquista il trofeo più importante.
Il paradosso, come dicevamo… .
La stagione successiva, Wilt prosegue nella sua trasformazione a servizio della squadra: resta attorno ai 24 punti e rimbalzi di media, ma diviene il primo centro a vincere la classifica totale e come media per partita negli assist. L’ennesima finale di Conference con Boston, che si riprende il primato, in una sfida surreale e che fino all’ultimo resta in forse, a pochi giorni dall’assassinio di M.L. King che colpisce duramente la comunità afro-americana così ampiamente rappresentata in NBA, conta relativamente.
Ormai Wilt è cambiato, è uomo squadra.
Per chiudere la carriera, si sposta a Los Angeles, sponda Lakers.
A parte il fattore età, ormai è un giocatore profondamente disponibile, che raramente va oltre i 30 punti, ma continua a catturare rimbalzi, sfornare assist, giocare di squadra. E questo, oltre a valergli ancora titoli MVP, permette ai gialloviola di competere contro le squadre storicamente dominanti, come Boston, o le nuove franchigie vincenti, come New York e i Bucks, nelle cui fila esordisce il nuovo prodigio, Lew Alcindor (Kareem Abdul-Jabbar), le cui sfide contro Chamberlain rimangono a detta di tutti i duelli migliori tra lunghi dell’intera storia del basket.
Nella sua permanenza in California, Wilt non rinuncia alla vita mondana e a quella da star, siamo pur sempre nella città degli eccessi e del cinema, tanto che gli viene addirittura proposta una improbabile e baracconesca sfida pugilistica contro Muhammad Alì. Ma la sua trasformazione in co-protagonista sul campo, in vero capitano, gli allunga la carriera e consente ai Lakers di competere al massimo livello, con duelli epici, beffe, rimpianti, ma anche con la vittoria dell’anello, nel 1972, quando Wilt ha già 36 anni ed è eroico, restando in campo in finale, al servizio degli altri, nonostante un brutto infortunio, e venendo eletto MVP delle Finals nonostante non sia più da tempo il miglior marcatore del team.
L’anno dopo, Chamberlain, chiudendo un’azione con una memorabile schiacciata che suggella il suo “impero”, pone fine alla propria carriera da giocatore. E il suo palmares, buono come titoli di squadra, rimane impressionante e per tanti versi ancora oggi irripetibile dal punto di vista individuale:
2 titoli NBA, con i Sixers e i Lakers, come detto, a livello di club, poi 4 titoli MVP NBA, 1 MVP Finals, 1 MVP All Star Game a cui è stato convocato ben 13 volte, 1 volta rookie dell’anno, sempre eletto nella miglior squadra NBA e 2 volte nell’ideale team difensivo, 7 volte miglior marcatore, 1 volta miglior assist-man, 11 volte miglior rimbalzista, miglior rimbalzista di sempre, secondo solo a MJ come più alta media punti in carriera, MVP NCAA, detentore di numerosi record per singola partita, ad esempio per punti e rimbalzi, ovviamente nella Hall of Fame NBA, e, caso unico, maglia ritirata da ogni franchigia, Warriors, Sixers e Lakers, oltre che dagli Harlem Globetrotters.
Uomo e giocatore leggendario, dunque, star sul campo quanto divo e playboy fuori dal campo, Wilt resta e resterà sempre un’icona del basket.
E per quanto abbia saputo essere paradosso e il suo contrario, per poter vincere gli anelli, rimane comunque certo che il suo strapotere fisico e tecnico, individualista e perdente, della prima parte di carriera, costituisce un’unicità folgorante nella storia della pallacanestro e dello sport, raramente così dominato da un solo atleta.
Lo testimonia la pazzesca stagione dei record, quel 1962 divenuto storico per ogni statistica individuale, ma soprattutto per quella sera del 2 marzo.
Quella dei 100 punti.
Per quanto fine a se stessa ed episodio che non incide nell’esito finale di quel campionato, è la sua sera, quella di un record assurdo, di una partita assurda, che da sola costituisce parte della storia del basket.
Philadelphia, che a quel tempo talvolta gioca in casa a Hershey, cittadina della Pennsylvania nota per la produzione del cioccolato e che ha un palasport a ridotta capienza, ospita New York.
Wilt è la stella, in stagione viaggia a cifre astronomiche, ben sopra i 50 punti. E tra le motivazioni degli avversari, oltre al risultato della partita, c’è sempre quello di affrontarlo e provare a ridurne l’impatto.
Anche quella sera… .
Ma qui ci fermiamo.
E vi lasciamo al racconto del miglior narratore sportivo in circolazione.
Nel filmato, attraverso le parole di Federico Buffa, potete rivivere quelle emozioni e scoprire tantissimi spunti interessanti, aneddoti, di quella stagione, di quel giocatore straordinario e straripante, di quella partita storica, in cui tutto, ma proprio tutto, poteva succedere e successe, sulle assi di un parquet periferico, illuminato da un astro abbagliante e circondato da tante incredibili, fantastiche coincidenza:
https://www.youtube.com/watch?v=0ArVwzD7bDU
Un giorno magico e simbolico.
Con 100 motivi per ricordarlo.
E ricordare lui, la sua storia.
Wilt Chamberlain.
Mister 100.