JULIUS ERVING – DOCTOR J

Ebbene sì.

Bisogna ammetterlo.

Questa rubrica prova ogni settimana a raccontare e riportare alla luce ricordi e personaggi leggendari, che hanno fatto la storia del basket, senza per forza seguire una cronologia precisa, un ranking basato sulle vittorie di squadra o i record individuali, o improbabili classifiche di rendimento all time.

Quelli proposti qui sono squarci di memoria, indelebili ed entusiasmanti, che coinvolgono gli appassionati e spesso hanno reso la pallacanestro una forma d’arte, un fatto non solo squisitamente sportivo o atletico, ma anche uno spettacolo, un modello di costume, un racconto emotivo.

Però, la scelta dei protagonisti, delle loro storie, o degli aneddoti meno noti, anche se sempre ricaduta su campioni eccezionali e incontestabili, passa per forza dai gusti e dalle umane debolezze di chi scrive, ovviamente.

E allora, appunto, tocca proprio ammetterlo… .

Oggi lo spazio di Memories è una questione di cuore, prima ancora che di testa, o dell’oggettiva grandezza del giocatore. Oggi, è l’affetto a parlare, la riconoscenza che talvolta ha sconfinato in devozione ed ossessione, è “l’imprinting” a spicchi di fine anni ’70 e inizio anni ’80 che condizionano la scelta e le parole, l’effetto evocativo tipo madeleine proustiana che ispira queste righe.

Perché oggi parliamo di un fenomeno assoluto, certo, ma forse un po’ dimenticato, in era moderna, forse non immediato per i più giovani, forse non eclatante come meriterebbe, offuscato dalle luci dei campioni super mediatici della pallacanestro odierna, o dalla grandezza e dalla fama mondiale dei suoi avversari coevi, come Kareem o Magic o Larry. E allora, attraverso di lui, le sue gesta, chi scrive, scrive soprattutto di se stesso, di come un bambino si possa innamorare follemente di un gioco bellissimo e spettacolare, fino a farne passione, lavoro, aspirazione, proprio perché “quello lì” è esistito, è passato dai parquet americani, attraverso il tubo catodico della tv in bianco e nero scassata e retrocessa a giocattolo da cameretta, fin dentro all’anima.

Quindi, perdonate qualche eventuale iperbole emozionata, o possibili slanci retorici. E’ colpa sua…

 

Julius Winfield Erving II.

Anzi, Julius Erving.

Anzi. Doctor J.

 

Inutile girarci intorno, e la premessa di parte è sufficiente.

Se oggi conosciamo quel tipo di basket, la NBA, divertente e spettacolare, se tutti abbiamo negli occhi imprese tecniche e atletiche sovrumane, se il nostro gioco ha alzato il proprio angolo di visuale, in alto, sopra il ferro, se ora non è solo pallacanestro, ma anche una miscela di emozioni, icone ed estetica del gesto, certamente tutti i personaggi passati da questa rubrica hanno portato il loro contributo, hanno avuto un impatto enorme e hanno trasformato una disciplina e la sua storia. I Lakers dello show-time, come i loro rivali dei Celtics, MJ come Kobe o Lebron, gli Spurs, Golden State.

Ma è Doctor J quello che ha anticipato tutto e tutti, ha fatto dell’estro, dell’eleganza, dell’esplosività il proprio marchio, ha fatto della schiacciata un simbolo del gioco, il momento topico e terreno di competizione per tutti i più grandi, ha precorso i tempi, sfidato l’impossibile e ispirato generazioni intere.

Esageriamo? Forse…

Ma un certo Michael Jordan ha affermato, commentando in un’intervista la carriera di Erving e la sua influenza sul gioco: “senza Doctor J non sarebbe mai esistito MJ”.

D’altronde, basta riguardarsi il filmato in fondo a questa storia: Doctor J è inventore di decine di schiacciate, come quella eseguita staccando dalla linea del tiro libero, e penetrazioni impossibili, come la conclusione in reverse, spalle a canestro o persino dietro al tabellone, tutti movimenti ripresi, perfezionati e resi immotali dallo stesso Michael.

 

Julius nasce nello stato di New York nel 1950.

Fin da piccolo gioca a basket, nei tanti playground periferici della Grande Mela, dove diventa una sorta di leggenda popolare, capace di richiamare, molto più che dentro ai palasport delle high school, migliaia di spettatori, assiepati alle reti, aggrappati ai lampioni o stipati sui terrazzi e le pensiline per ammirare quel ragazzo straordinario, che dà spettacolo di gioco e di stile.

Al college arriva nel 1968, all’Università del Massachusetts.

E’ un profeta, l’incarnazione di un mondo che sta cambiando, non solo sul campo da basket, ed è iconico, con la sua ampia capigliatura afro, il suo gioco che sa coniugare concretezza e imprevedibilità. Il mondo della pallacanestro “ufficiale” sembra volerlo ignorare, rapito da altri protagonisti, indubbi, solidi, più classici o dotati di più centimetri. Ma il talento e i numeri non mentono: è uno dei soli 6 giocatori in tutta la storia NCAA ad aver tenuto per l’intera carriera universitaria una media di oltre 20 punti e 20 rimbalzi a partita, dato quest’ultimo di certo impressionante, visto che Erving non è certo un centro o un’ala forte, come gli altri recordman di questa statistica.

E soprattutto, non mentono le immagini, le sue giocate, i suoi movimenti sublimi e le emozioni che sa suscitare. Ha infatti già un suo “pubblico di nicchia”, fedele e devoto, che lo segue, nel quale trova spazio anche un giovane giornalista che, a fine partita, dopo l’ennesima performance eccezionale e “rivoluzionaria”, non sapendo più con quali parole descriverlo chiede proprio a Julius come poterlo definire.

“Chiamami Dottore”, è la risposta del campione. Che da quel giorno, appunto, diventa per tutti Doctor Julius Erving, poi più semplicemente ed evocativamente, solo Doctor J.

 

Al momento del salto tra i PRO, a inizio anni ’70, Dr. J si trova di fronte a una prima scelta non semplice.

Come abbiamo già descritto in questa rubrica, ci sono due leghe ufficiali, in cui si dividono franchigie e campioni. La NBA, quella più solida, tradizionale, e che alla fine uscirà unica vincitrice, e la nuovissima ABA, un’alternativa più naif, quasi “psichedelica”, più spettacolare, in cui comunque trovano spazio team storici e importanti e giocatori formidabili.

Julius sceglie quest’ultima, probabilmente la più adatta al suo gioco da funambolo, e ne diviene immediatamente padrone, ambasciatore perfetto e dominatore. Debutta infatti con i Virginia Squires e con 27.3 punti di media è indiscusso rookie dell’anno. L’anno dopo, alza la sua media a 31.9, vince il titolo di miglior marcatore e le sue giocate che sfidano le leggi della fisica diventano lo spot perfetto per il basket e per la ABA.

Passa allora a una delle franchigie più importanti, i New York Nets, e la sua immagine in schiacciata, col pallone tricolore bianco rosso e blu, la sua canotta a stelle, è il “poster” cestistico che regna nelle camere dei giovani americani e segna il basket anni ’70.

Ma c’è anche tantissima sostanza:

in 3 anni a New York, si conferma 2 volte miglior marcatore, per ben 2 volte conduce la squadra al titolo, “l’anello” ABA, aggiungendoci 3 vittorie come MVP assoluto della stagione, in 5 anni totali di permanenza nella lega.

Quando nel 1977 tutto il mondo a spicchi americano confluisce nella NBA Doctor J è il leader assoluto e punta di diamante di tutti i talenti di ritorno nell’unica associazione riconosciuta.

Ad assicurarsi le sue prestazioni è Philadelphia. I Sixers sono una franchigia di buon livello, nata da circa 10 anni dalle ceneri di Syracuse e con la pesante eredità degli Warriors di Chamberlain, migrati a San Francisco a fine anni ’60. Un buon roster giovane, tanta ambizione, un pubblico affezionato e competente sono lo scenario su cui muove i primi passi Julius in NBA.

Certo, rivaleggiare contro le storiche Lakers e Celtics, o con piazze che via via emergono come i Bucks, Houston, Portland, non è semplice, ma per un genio innovativo probabilmente è la scelta giusta, come dimostra poi la sua storia, da bandiera dei 76ers.

Al primo anno, pur ridimensionando un po’ gli aspetti eccessivamente circensi delle sue performance per mettersi al servizio della squadra, Doctor J impressiona tutti e impatta alla grande. Ha statistiche da campione, un gioco spettacolare quanto concreto, tanto che i Sixers centrano subito la finale NBA assoluta, perdendo contro i Blazers, e lui ottiene la prima convocazione all’All Star Game, in cui viene eletto MVP, al suo debutto, con 30 punti e 12 rimbalzi.

Philadelphia, dopo quel primo anno così convincente di Doctor J, decide di consolidarsi con nuovi innesti, e riesce a stabilirsi ai vertici della lega, come forza emergente, tra i mostri sacri, alla vigilia di un periodo storico, gli anni ’80, in cui obiettivamente la NBA ha forse il proprio apogeo, come valore tecnico medio, numero di campioni indimenticabili e team stellari. Per due stagioni i Sixers rimangono ai vertici, sono tra i protagonisti della stagione regolare e dei playoff e Erving continua ad incantare. L’anno dopo, il 1980, centrano nuovamente le Finals, ma di fronte trovano i Lakers di Jabbar, della nuova stella Magic e dello show-time appena nato. Nulla da fare.

Nel 1981, Doctor J cresce ancora, dà letteralmente lezioni di basket sul campo, fino a vincere il titolo di MVP della stagione. Ma per il titolo, si passa per le finali di Conference, dove ci sono i Celtics di Bird, Parish e McHale, che si impongono per 4 a 3 in una serie tiratissima e passata alla storia.

A quel punto i Sixers sono tra i grandi assoluti, Julius è una star, e il pubblico, anche lontano da Philadelphia, prende in simpatia il giocatore e il team che si è intromesso stabilmente e battaglia con onore, come un moderno Davide contro due invincibili Golia, contro Los Angeles e Boston. Nel 1982, Philadelphia vince a Est ed è alla terza Final in 5 anni. Deve di nuovo arrendersi in 6 partite ai “soliti” giallo-viola californiani.

Finita? Non se ne parla.

Doctor J prosegue la sua docenza cestistica e i dirigenti si convincono a completare il roster con un grandissimo centro, 2 volte MVP e finalista con Houston pochi anni prima: Moses Malone.

E’ la svolta. Philadelphia ora è completa e la stagione è entusiasmante.

Uno show-time alternativo ai Lakers invade dalla costa Est l’intera lega. Spettacolo, gioco, schiacciate. E vittorie.

Di slancio i Sixers centrano nuovamente le Finals. Dall’altra parte del campo ci sono ancora Magic, Kareem, Worthy e compagni, guidati dal santone Pat Riley.

Ma stavolta Davide fa a fette Golia.

Un 4 a 0 secco che porta l’anello a Philadelphia e al dito di Doctor J, che per completare un’annata irripetibile vince anche l’MVP all’All Star Game e l’onorificenza Kennedy.

 

A quel punto lui ha già 33 anni, è sempre divino nei movimenti, ma il fisico non gli consente la stessa esplosività degli anni d’oro. I 76ers rimangono una buona squadra, ma non si ripetono al vertice assoluto, fino al 1986/87, quando a 37 anni Julius decide di ritirarsi: nell’ultima tournée con i Sixers, in cui saluta il basket giocato, sono migliaia gli spettatori che accorrono nei palasport per l’ultimo tributo a una stella spettacolare, che idealmente sta passando il testimone al nuovo astro nascente di quel gioco, quel tipo di gioco, Michael Jordan dei Bulls.

 

Al momento del suo ritiro, Erving figura nella top ten di ben 4 voci statistiche della storia NBA: secondo come punti realizzati, terzo come tiri realizzati, quinto per quelli tentati, e primo assoluto nelle palle rubate.

Ma ancora oggi, pur, come dicevamo, meno celebrato di altri, se si considera la totalità della sua carriera pro, quindi la NBA e i 5 anni ABA, il suo palmares rimane invidiabile:

3 titoli (2 anelli ABA e 1 NBA) di squadra, mentre a livello personale 4 volte MVP della stagione (3 ABA e 1 NBA), 2 volte MVP dell’All Star Game (1 ABA e 1 NBA) a cui è stato convocato praticamente sempre (5 ABA e 11 NBA), così come nella selezione dei migliori giocatori All-NBA e All-ABA, 2 volte MVP playoff ABA, 2 volte vincitore della gara delle schiacciate ABA, premio J.W. Kennedy, ottavo posto assoluto nei marcatori della storia del basket americano con 30.026 punti.

La sua leggendaria canotta numero 6 è stata ritirata dai Sixers, come quella numero 32 dei New York Nets, ora Brooklyn Nets, e lui è ovviamente nella Hall of Fame NBA.

 

Dopo il basket giocato, Doctor J è rimasto nel suo sport, con vari ruoli, dal vicepresidente esecutivo, a Orlando, con i Magic, al commentatore TV, e ha anche intrapreso con successo la carriera imprenditoriale.

Ma è la sua grandezza, l’impatto tecnico, atletico, emotivo, quasi poetico che ha avuto nella pallacanestro e nella percezione popolare che resta e ha sempre ispirato i suoi ammiratori, non a caso spesso artisti.

Il sassofonista Grover Washington Jr gli ha dedicato il brano “Let It Flow (for Dr.J)”, il rapper Dr. Dre ha scelto il proprio nick name, “Dr.” appunto, da Julius Erving, il cinema lo ha coinvolto facendolo recitare nel 1979 nel film “Basket Music”, nel 1993 nel film da Oscar “Philadelphia”, in cui interpreta se stesso, nel 1996 nella serie “Frasier”. La Converse, che a Doctor J deve molto del proprio successo negli anni ’70, lo ha eletto proprio testimonial per tante stagioni, la Electronic Arts ha celebrato la sua rivalità con Bird, col videogioco One to One.

 

Insomma, come da premessa… oggi forse Memories è un racconto “di parte”…

Ma basta riguardarsi le immagini di repertorio di Julius Erving per capire… e perdonare questa debolezza:

 

https://www.youtube.com/watch?v=wyEn1sQDxsk

 

Sono lezioni.

Lezioni di basket. Lezioni di sport. Lezioni di spettacolo, di perfezione, di stile… .

Lezioni di un grande Dottore.

Le lezioni di Doctor J.

BOSTON, MA – 1975: Julius Erving #32 of the New York Nets looks on against the Boston Celtics during a game played circa 1975 at the Boston Garden in Boston, Massachussets. NOTE TO USER: User expressly acknowledges and agrees that, by downloading and or using this photograph, User is consenting to the terms and conditions of the Getty Images License Agreement. Mandatory Copyright Notice: Copyright 1975 NBAE (Photo by Dick Raphael/NBAE via Getty Images)